Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.
Roberto Latini presenta lo spettacolo Venere e Adone. Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni questa sera al Teatro degli Atti di Rimini per il festival Le Città Visibili. Una performance sul mito, ma con una drammaturgia fluida e caratterizzata dall’estrema apertura all’interpretazione personale dello spettatore. Abbiamo intervistato Latini per farci raccontare qualcosa in più sulla genesi di questo lavoro.
Come nasce l’idea dello spettacolo?
«Venere e Adone nasce in una di quelle pause forzate che il lockdown ci ha regalato, e durante il quale non ho fatto nessuno spettacolo nuovo. In questo per me inusuale anno di fermo, il primo dal 1992, mi sono avvicinato al testo di Venere e Adone di Shakespeare, il quale lo scrisse proprio in un momento in cui tutto a Londra era chiuso per la peste, nel 1593. Alla riapertura dei teatri, Venere e Adone fu la sua proposta e lo stesso ho fatto io, nell’estate del 2021».
Come è cambiato lo spettacolo nel tempo?
«La prima versione che ha debuttato corrisponde a quello che poi è diventato il primo movimento dello spettacolo, ora diviso in cinque episodi. Mi piace pensare alle differenti parti come concentriche tra loro, anche se non sta a me dirlo, in quanto l’interpretazione è deputata allo spettatore e la disposizione non ha alla base alcuna pretesa di forma. Comunque, i cinque movimenti sono riferiti ai cinque interpreti principali del mito: il primo è “Amore”, il puttino di Venere, la cui la freccia punge la dea nel momento in cui appare Adone; poi c’è il capitolo “Cinghiale”, un riferimento shakespeariano che ho voluto tenere all’interno dello spettacolo, rimandando al Riccardo III in quanto il cinghiale è il simbolo della casata di Gloucester. Seguono poi gli altri due episodi, differenti per scrittura scenica, sviluppo, pensiero nonché destinazione, dedicati rispettivamente ad Adone e Venere. Infine ho sentito poi la necessità di aggiungerne un quinto intitolato “Chiunque”: si tratta di un momento per me necessario, proprio perché i primi quattro episodi possano essere interpretati come qualcosa che ci riguarda».
Hai parlato dell’amore, ma nel mito di Venere e Adone c’è anche altro, come per esempio la dimensione della fatalità e della morte. Che ruolo hanno queste altre tematiche nel tuo spettacolo e come si rapportano col mondo di oggi?
«Con gli spettacoli che faccio, non ho mai la pretesa di ricollegarmi al mondo di oggi. Credo fermamente che stia a ogni spettatore e alla sua sensibilità la scelta di cosa prendere da un’opera e cosa mettere nel proprio sentire. Se dovessi salire sul palco con l’idea di fornire una mia interpretazione, allora non mi presenterei nemmeno. Amore e morte sono costantemente presenti in una forma umana e non; per esempio c’è un tema mitico, favolesco e anche metaforico nella trasformazione di Adone, quando il corpo dell’uomo svanisce e dal suo sangue nasce il fiore. Questa condizione è un po’ suggestiva e ci porta completamente altrove».
Il testo ovidiano fa proprio riferimento alla trasformazione; anzi si può dire che i miti del poema culminino proprio nella metamorfosi stessa. Hai mantenuto questa tesi nel tuo spettacolo?
«Il mio Venere e Adone non ha né la pretesa, né la voglia e tantomeno il destino di assecondare una qualche tesi o punto di vista. Questi sono più temi da relazione universitaria, mentre nel teatro penso che l’occasione sia un’altra. D’accordo, la trasformazione è un tema contenuto nel mito stesso, ma quello che metto in scena io non è il poema di Ovidio. Ciò che mi interessa è il contesto contemporaneo in cui siamo, leggere questi classici e capire come possiamo scriverli. Questo spero accada: stare in una relazione comunicativa che si chiama teatro. Non sono il custode di una verità da rappresentare al pubblico né uno spacciatore di teatro».
Dalle tue parole si nota la ricerca di una semplice connessione con il pubblico senza troppe impalcature e interpretazioni.
«Esatto, l’interpretazione è già in corso, è infusa nel patto teatrale. Non ho bisogno di farmi vedere, sono già visibile».
intervista a cura di Tommaso Daffra e Lorenzo Toriel