Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.
Piccoli passi, piccolissimi, sono mossi dalla massa di una piumone bianco, bianchissimo, sul palco del Teatro degli Atti. L’apparizione sulla scena di quello che sembra essere un corpo fantasma, leggero e pesante allo stesso tempo, è emblematica: girovaga sofferente e gobbuto, protetto e ostacolato dalla corazza che indossa, come se fosse una farfalla obbligata dentro al proprio bozzolo. Intorno alla creatura acroma non c’è molto altro: solo un uomo vestito di nero (Lorenzo Bruno), seduto su una cattedra al lato destro che osserva silenzioso, poi una sedia bianca posizionata centralmente e l’asta di un microfono, a cui la massa errante si avvicina. Il candido e massiccio guscio ora si schiude rapido, e permette alla testa di una giovane donna (Caterina Marino) di uscire allo scoperto. L’attrice, con voce spenta e una franchezza crudele, rompe il silenzio: «È così che dovrebbe iniziare uno spettacolo sulla depressione?». Sì, forse è così che dovrebbe farlo, presentando l’ignavia profonda, l’incapacità assoluta di azione e immaginazione del domani, lo stato catatonico che silenzioso incatena e imprigiona chi ne soffre. La ragazza si trascina da un lato all’altro del palco ciondolando, poi si appoggia sulla sedia bianca e, raggomitolata su se stessa, raccolta e accartocciata, inizia a ipotizzare le cose che potrebbe fare fuori da quella soffocante stanza immaginaria: magari uscire a passeggiare in un parco, o forse guardare un film al cinema, oppure ancora andare al mare. Ma ognuna di queste proposte resta vaporosa e ipotetica, una possibilità remota e consolante che mai, però, si realizza.
Il cinico realismo che porta in scena Caterina Marino in Still alive ci disarma. Ciò che si vede sulla scena non è altro che il corpo inerme di una persona schiacciata dalla propria impotenza, che tenta in ogni modo di evadere dalla propria insignificanza sociale e dalla minaccia incombente e minacciosa del domani. Prigioniera di se stessa, la donna sola impara a ridimensionare i propri sogni, a schiacciarli e rimpicciolirli, nell’attesa che quel vuoto esistenziale passi e in qualche modo si dissolva. Trascinante e trascinata, la protagonista alterna a battute sarcastiche scenari estremamente toccanti, crudi, violenti, oscuri, in cui mente e corpo boicottano il corso degli eventi e generano pensieri autodistruttivi.
Dalle viscere del proprio essere, dalla disperazione di un’esistenza senza scopi, dalla non-forma, dal racconto di un suicidio compiuto respirando il fumo del gas, avviene infine un’evoluzione di speranza. Caterina Marino e Lorenzo Bruno sono seduti sul palco a fianco a una scatola trasparente: questa, dapprima simboleggiante il forno mortale, ora è illuminata da una luce nuova. Al suo interno sono conservati dei biglietti, quelli scritti dal pubblico prima di vedere lo spettacolo, elencanti le «cose per cui vale la pena vivere». I due attori, senza dimenticarne nemmeno uno, leggono il contenuto ad alta voce: la densità della stanza si allenta, le luci gentilmente si risvegliano e noi battiamo le mani forte, fortissimo.
Margherita Alpini
«Dove ti vedi tra cinque anni? E tra dieci? Non mi vedo, non mi immagino». Still alive, spettacolo scritto, diretto e interpretato da Caterina Marino e presentato al festival Le Città Visibili di Rimini, è la storia di una generazione intera in balia dell’ansia per il futuro, che incombe minaccioso con le sue catastrofi. Marino interpreta (o forse impersona) la ragazza qualunque che non riesce più a vedere una prospettiva per la propria vita. La troviamo sul palco avvolta in un piumone bianco, ormai inglobato dal suo corpo, e con la voce flebile, come se fosse troppo stanca per far vibrare le corde vocali. Prova a comunicare con la poca forza che ha: chiede al pubblico qualcosa da sgranocchiare per interrompere la fame nervosa, cerca qualcuno con cui parlare al telefono, ma nessuno le risponde. Al che inizia a leggere alcune massime da un grande libro, sperando di trovarci una spiegazione alla sua sofferenza. Ma tenta inutilmente di procrastinare per non fermarsi ad ascoltare i suoi pensieri.
Inizia così, per la protagonista, il circolo vizioso che attanaglia tutti i giovani che soffrono di depressione: pensare ad attività che potrebbe fare, ma subito dopo trovare una scusa per non uscire di casa e rigirarsi sempre più stretta nel suo piumone, unico scudo tra l’apatia e la frenesia del mondo esterno. A condividere con lei questo “male di vivere” c’è anche Lorenzo Bruno, tecnico video e personaggio-persona sul palco, il quale tenta di spronare Caterina a darsi un obiettivo, finendo per abbandonarsi con lei alla malinconia.
Lo spettacolo mette in scena in modo delicato ma efficace quello che Umberto Galimberti definisce «il disagio giovanile nell’età del nichilismo». Lo conferma lo spezzone del monologo che viene proiettato sulle quinte, in cui il celebre filosofo e psicanalista afferma: «Il desiderio è potenzialmente rivoluzionario, è la macchina che ti fa cambiare il mondo. Ma se non hai più desideri diventi rassegnato. I ragazzi che si svegliano a mezzogiorno, si drogano e bevono non lo fanno per il piacere che produce in loro la sostanza, ma per anestetizzarsi. Se il futuro non offre niente, non voglio angosciarmi pensando al mio».
Attraverso monologhi, in cui la sfumatura di espressione e tono di voce fa emergere dalla sola attrice diversi personaggi, Marino ripercorre orizzontalmente tutte le identità sociali problematiche più comuni. La madre della protagonista, con le sue continue pressioni e la sua incapacità di stabilire un dialogo alla pari, le ha creato un senso di insicurezza e frustrazione paralizzante. La sua psichiatra, a cui racconta le immagini di morte che si materializzano nella sua mente, cerca di darle una direzione per comprendersi ma, appena uscita dalla “porta”, l’attrice svela al pubblico di non sapere se ciò che viene detto in quella stanza sia la verità oppure no. Allora forse mentiamo a noi stessi in continuazione per attribuirci uno status sociale? O semplicemente ci incaselliamo in cassetti predefiniti per non scoprire quanto piccoli e soli siamo in realtà?
Indagare il proprio dolore, essendo sottoposti costantemente alla vista di quello altrui tramite i mass media, diventa la grande sfida della nuova generazione: «Più mondo reale conosciamo, più si riducono le nostre capacità psichiche di gestirlo», spiega sempre Galimberti. E allora come comportarsi davanti a un mondo che va a rotoli? Mentre sullo sfondo vengono proiettate a ripetizione immagini di catastrofi naturali, Caterina tenta, come tutta la sua generazione, di coprire le grida di dolore del mondo con una musica assordante; balla sui tavoli con Lorenzo a occhi chiusi per dimenticare, solo per un attimo, le tragedie da cui sono circondati. Cerca di vivere il “qui e ora”, perché sa che potrebbe non esserci futuro per lei. La sua generazione coltiva una rassegnazione quasi pacificante. Perché continuare a esistere? Per esserci quando tutto cesserà, per vedere come andrà a finire.
Elena Tassinari