Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.
Fra teatri e luoghi dimenticati, a guidare il pubblico riminese alla scoperta de Le Città Visibili c’è Tamara Balducci, direttrice artistica della XI edizione del festival. L’attrice, mostrandoci un sorriso accogliente, si racconta generosa a noi partecipanti al laboratorio di Altre Velocità.
Il titolo del festival si ispira al romanzo di Italo Calvino Le città invisibili. Perché la scelta di questo titolo? In quali aspetti il festival si ispira al romanzo?
«Il festival nasce nel 2013, quando ci viene chiesto dall’allora assessore alla cultura di Rimini Massimo Pulini di creare un progetto teatrale nei luoghi della città abbandonati e degradati, per riqualificarli con eventi culturali. Si parlava di posti totalmente invisibili che, tramite il teatro, abbiamo reso nuovamente visibili: da qui il nome del festival. Il mantra del nostro progetto è sempre stato la frase più celebre del romanzo di Calvino: “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio”. In questo senso il titolo “sbagliato” è la chiave di lettura del festival: dare spazio ai luoghi dimenticati che lo animano».
Difatti i luoghi che abitate durante il festival sono spazi non ufficiali, dimenticati. Gli spettacoli che prendono vita in questi ambienti subiscono delle modificazioni in virtù dalla memoria del luogo, oppure ne sono potenziati? Che lavoro fate per avvicinare le due parti?
«Sono stati tanti gli spazi che abbiamo abitato negli anni del festival, dall’ex macello alle ex colonie bolognesi. Non c’è un unico criterio nella decisione: le dinamiche che si intrecciano nella scelta finale per decretare che quel determinato spettacolo sia allestito in quel preciso luogo sono molteplici, e le ragioni non sono solo estetiche, ma anche banalmente tecniche o economiche. Nella conferenza stampa di quest’anno abbiamo citato una tesi di laurea, scritta da tre talentuose studentesse della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, intitolata “La cultura non si porta, la cultura è nei luoghi”: questa breve sentenza mi è sembrata un bellissimo riassunto di ciò che cerchiamo di fare. Sono i luoghi che chiamano gli spettacoli e la commistione di tutti questi elementi rende la città visibile».
Qual è stato invece il criterio di selezione degli spettacoli in programma? C’è un filo conduttore a unirli?
«Ogni anno il programma si fa da solo, ed è un insieme di scelte dettate dalle circostanze pratiche e dagli obblighi a cui dobbiamo adempiere. Questo però non lo viviamo come un limite, perché proprio dove ci sono dei paletti entra in gioco lo sfogo della creatività in tutta la sua potenza. Oltretutto, volendo rendere partecipe la città nei suoi spazi riqualificati, diventa difficile cercare una coerenza tematica nelle trame, proprio perché l’importanza del luogo è essa stessa il filo conduttore.
Per quanto riguarda il criterio di selezione, la mia esperienza da attrice e poi da direttrice artistica mi ha insegnato tanto nel tempo. Inizialmente volevo portare solo spettacoli che mi piacevano, poi pian piano ho capito che fare delle scelte per gli altri significa mettersi in dialogo con il pubblico e al suo servizio, e questo prescinde dal mio gusto personale. Perciò solo una parte degli spettacoli in programma sono quelli che mi hanno fatta personalmente innamorare, mentre altri sono scelti dai “visionari”, un progetto che raccoglie gruppi di 60 persone in tutta Italia per assistere in anteprima agli spettacoli e votare il migliore da proporre al pubblico dei festival coinvolti. La cosa incredibile è che sin dalla prima edizione, ogni anno hanno sempre scelto qualcosa che io non avrei mai pensato. Questo è il senso più profondo del nostro festival: entrare in dialogo con le persone per farle avvicinare e appassionare al teatro, nella direzione di coltivare una comunità dedita all’arte».
Le tue parole spesso fanno appello al desiderio di costruire un dialogo tra la realtà teatrale e il pubblico. Quali sono le strategie che finora sei riuscita a trovare per fortificare quest’unione?
«Come già raccontavo prima, Le Città Visibili ha per natura il desiderio di aprirsi ai luoghi dimenticati, alle persone non avvezze al mondo del teatro contemporaneo, alla costruzione di un dialogo sincero tra la comunità e il luogo che abita. Abbiamo sperimentato diverse strade per far sì che i giovani in particolare si incuriosissero a questo nostro mondo: quest’anno tra le occasioni di incontro, oltre al laboratorio condotto da Altre Velocità, abbiamo messo a disposizione per ogni spettacolo dieci biglietti omaggio per fruitori under 30. Spesso poi collaboriamo con le scuole, attuando diversi progetti dedicati al mondo del teatro, solitamente lavorando con gli studenti durante le ore di lezione oppure coinvolgendoli come collaboratori. Negli anni passati per esempio abbiamo promosso un workshop di social media e storytelling con Giovanni Boccia Artieri, insieme a cui, dopo alcuni incontri preparatori, i ragazzi curavano la pagina social del festival. Credo che l’approccio al teatro possa nascere anche da incontri diversi, da situazioni collaterali: vorremmo permettere ai ragazzi di diventare sempre di più spettatori attivi, capaci di mettere in gioco il proprio giudizio e dialogare con lo spettacolo a cui assistono».
intervista a cura di Margherita Alpini ed Elena Tassinari