Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.
Va in scena questa sera al festival Le Città Visibili di Rimini lo spettacolo Maternità, nuova produzione della storica compagnia ravennate Fanny&Alexander, tratta dall’omonimo racconto di Sheila Heti. Abbiamo incontrato Chiara Lagani, co-fondatrice della compagnia nonché attrice e drammaturga dello spettacolo, per farci raccontare la genesi dell’opera, un lavoro in cui il pubblico avrà un ruolo attivo attraverso alcune decisioni da prendere con un telecomando.
Come è nata l’idea dello spettacolo?
«Qualche anno fa abbiamo fatto uno spettacolo multiscelta tratto dal Mago di Oz. La platea era formata da bambini, ognuno con un telecomando che gli permetteva di decidere l’evoluzione della storia. Il fatto che non ci fosse una sola possibilità mi intrigava molto, e mi ero riproposta di fare una cosa del genere anche per gli adulti, ma a patto di affrontare un tema molto sensibile. La maternità è uno di quegli argomenti di cui le donne si vergognano di parlare, soprattutto se hanno storie difficili e dolorose alle spalle come l’infertilità, la scelta tardiva di avere figli, l’aborto volontario, la fecondazione assistita. Inoltre negli ultimi anni sono usciti tantissimi libri interessanti sull’argomento. Quello che mi ha colpita di più è di Sheila Heti, una scrittrice canadese che tratta sempre di temi molto personali e di questioni con uno spaccato sociale forte e vivo, ma poste in maniera non univoca. In Maternità, Sheila racconta di sè nel momento in cui a 40 anni si chiede se voglia o meno avere un figlio, e impiega tutto il libro per rispondersi di no. Ho pensato che fosse la storia giusta per creare un racconto ad albero che spingesse il pubblico a essere protagonista della scelta, anche se questo voleva dire creare inevitabilmente situazioni di disagio».
Che tipo di lavoro hai fatto per trasporre un racconto in uno spettacolo teatrale interattivo?
«Il testo di Sheila Heti è costruito a domande e risposte, e quando non sa rispondere, lancia dei dadi e lascia fare al caso. È un meccanismo molto feroce, e la ritmica incalzante a cui deve sottostare crea un sistema di autosabotaggio. Ho pensato che metterlo in scena in questo modo avrebbe fatto perdere il coinvolgimento del pubblico; invece, tramite il dispositivo del telecomando, c’è una risposta collettiva, lo specchio di un pezzettino di società. Scriverlo è stato difficile, poiché per creare un racconto ad albero bisogna avere il controllo su un quantitativo enorme di materiali. Lo spettatore ne vede solo una minima parte, e la cosa più interessante è che ogni sera si assiste a uno spettacolo diverso. Io stessa non ho ancora provato tutte le sue possibilità, anche perché sono più di quelle che il tempo ci ha consentito di mettere in scena».
Che impatto ricerchi dando la possibilità al pubblico di compiere delle scelte? Perché dare poco tempo per rispondere a domande così difficili?
«Ciò che volevo era costruire una zona di disagio e lavorare sulla rottura del senso del pudore. È un impegno difficile per me in quanto donna. Anche assumendo un’identità fittizia, tutte le questioni finiscono per attraversarmi, e la tematica mi mette in discussione. La velocità ti mette nelle condizioni di rispondere istintivamente, e anche se so che i grandi temi non si possono liquidare con un sì o con un no, ho visto crearsi nel pubblico una dimensione comunitaria. Ho avuto davanti a me spettatori molto coinvolti emotivamente e al contempo tante prese di distanza, ma ho visto soprattutto persone che alla fine volevano raccontarmi la loro storia: “Non l’ho mai detto a nessuno”. Qui entra in gioco il tema della vergogna, di cui dobbiamo liberarci. Riguardo la maternità o meno non c’è alcuna colpa, è solo un accadimento della vita».
Da dove nascono le aspettative sulle donne riguardo la maternità, e come si possono combattere?
«Tutto secondo me comincia quando la donna vuole avere una libertà lavorativa pari a quella dell’uomo. Mia nonna ad esempio non si poneva il problema della propria emancipazione; per lei era naturale che il suo primo pensiero fosse la famiglia. Quando però alcune donne hanno iniziato a mettere il lavoro davanti alla famiglia, tardando inevitabilmente il momento in cui si vogliono avere figli, qualcosa nel meccanismo si è inceppato. Sappiamo, grazie alla scienza, che a 35 anni inizia una discesa biologica per le donne, e che quindi in molte di loro potrebbero sorgere problemi di fertilità. Questo scatena anche una serie di retoriche che dovrebbero ormai essere debellate dall’immaginario comune: una donna che lavorando trascura i figli viene giudicata perché non è abbastanza presente, mentre quelle che non vogliono avere figli vengono fatte sentire inferiori. Questi discorsi peggiorano la qualità della discussione e delle scelte, per non parlare del fatto che a livello medico c’è molta discriminazione: in alcuni centri specializzati, anziché trovare conforto e solidarietà, si trovano violenza e giudizi. L’unico modo per combattere le aspettative è affrancare le donne dal senso di colpa, parlando con loro e informandole sulle possibilità che hanno. Poche donne attualmente sanno che, se dovessero aspettare ad avere figli per questioni legate alla professione o alla situazione sentimentale, potrebbero decidere di congelare i loro ovuli per usarli in seguito. Nessuno te lo dice o te lo spiega. Sheila Heti invece parla molto di questi e altri tabù, e ha ragione, perché ancora oggi siamo vittime di tante autocensure per colpa del nostro sistema culturale. Parlarne anche attraverso l’imbarazzo e il disagio è una forma per uscire da questo sistema chiuso».
Secondo te esiste l’istinto materno?
«Indubbiamente c’è una forza naturale, un fattore animale primordiale. Poi sicuramente il nostro sistema culturale ha ricamato su questo istinto che invece è puro, semplice e bello. Anche se il sentimento di cura che proviamo verso i nostri figli ci sembra simile a quello dei mammiferi, noi siamo esseri umani, e per noi natura e cultura sono in una dialettica più complessa. Non dobbiamo demonizzare chi per sua propensione o mancanza di vocazione non prova questo istinto, così come non dobbiamo pensare che colei che in tutta serenità ha scelto di non avere figli abbia perso qualcosa. La vita è un sistema di scelte, tra libertà e vincolo. La maternità e tutte le altre grandi questioni sono così: scegliendo una cosa ce ne perdiamo un’altra, ma la presa di posizione sulla propria vita è ciò che ci rende umani».
intervista a cura di Elena Tassinari