Annalisa ha 21 anni, è counselor del benessere. Marisa Evangelista di anni ne ha 52 e dirige un’azienda di commercio import-export. Eugenio ha 29 anni, è progettista di impianti elettrici. Graziano di anni ne ha 57 ed è segretario generale della Cgil. La zona territoriale che occupano si snoda dal mare per raggiungere i paesi interni – da Rimini a San Marino passando per Santarcangelo e Villa Verucchio.
a cura di Francesca Giuliani
Non ci sono i volti qui a raccontare storie ma i nomi. I moderni selfie lasciano lo spazio alle nude parole che gli stessi protagonisti hanno usato per raccontarsi e raccontare la scelta di entrare a far parte della comunità dei Visionari. Dalle loro narrazioni è scaturito che l’essenza del teatro è ancora intensa e magnetica nel consentire e garantire il recupero di una relazionalità e di una sociabilità che oggi sembrano dimenticate nella velocità e nella tendenza – come scriveva Guy Debord – all’“irrealismo della società reale”: «a fianco di una parte di persone che vivono del solo divertimentificio superficiale, tanto fast e vorace quanto effimero ed asettico, così comune soprattutto a Rimini, sta crescendo un gruppo di persone che è in cerca di una maggior profondità del sentire e di un arricchimento personale, una maggior consapevolezza».
Alla domanda sul perché si è scelto di entrare a far parte di questa comunità così particolare le risposte hanno spaziato dal «desiderio di portare la voce di una persona comune all’interno di un mondo solitamente di nicchia come quello dello spettacolo dal vivo» al suo opposto: «sono curiosa, amo il teatro e “Le Città Visibili” mi hanno accompagnato in questa avventura ma per me avrebbe senso inserire in ogni gruppo di visionari uno spettatore “addetto ai lavori” che guidi nella visione».
Da una parte quindi il teatro sembra sopravvivere nonostante la sua marginalità diventando strumento di rifugio – «per me il teatro è un mondo parallelo, non è reale, è un mondo dove possiamo essere chi vogliamo esprimendo le nostre idee» – e un modo di osservarsi – «per me il teatro è metafora della vita, è un modo piacevole per ingannare il tempo e indagare se stessi»; dall’altra il luogo teatrale sembra diventare lo spazio per “ricostruirsi” attraverso la relazione sociale che nasce dentro e oltre lo spettacolo «il teatro per me è un’immersione in uno spicchio di vita parallela, è vedere una realtà differente, a tratti esasperata, ma non così falsata come la televisione. È un farsi coinvolgere in prima persona dagli attori, dalle loro percezioni e da ciò che trasmettono, e vivere di conseguenza le loro emozioni. Non c’è uno schermo asettico che isola e distanzia, non ci sono le registrazioni e i tagli e le repliche. Ci sono gli odori, il sudore, le tensioni, gli imprevisti, le vibrazioni».
Un’altra domanda le cui risposte segnano una precisa necessità rivolta al bisogno di narrazione è quella riguardante le tematiche principali che hanno attraversato gli spettacoli visti. Tutti hanno voluto ricordare la presenza preponderante di monologhi di carattere storico-politico. Il “teatro-documentario”, la storia vera di una ragazza americana di 23 anni che militava nell’ISM (International Solidarity Movement), la rivisitazione in chiave “contemporanea” della figura di Giovanna D’Arco: questi gli spettacoli che tutti hanno menzionato.
E ora che cosa resta? Sicuramente la consapevolezza che cinque cose sono ancora necessarie oggi:
- continuare a raccontare storie
- creare comunità attraverso il dialogo, la condivisione e il confronto
- relazionarsi è il solo futuro possibile
- combattere il binomio irrealtà/consumismo attraverso il binomio realtà/finzione
- «esprimersi attraverso il teatro è bellissimo»