Questo articolo è prodotto dai partecipanti al “Laboratorio gratuito di giornalismo culturale e narrazione transmediale“, organizzato da Altre Velocità per il festival Le Città Visibili 2023.
Dal 28 al 30 agosto, per il festival Le Città Visibili, va in scena all’interno dello Studio A (via Covignano 221, Rimini) l’opera Piccoli suicidi: tre brevi esorcismi di uso quotidiano di Giulio Molnár. Composto di tre episodi in cui situazioni ed eventi reali vengono esorcizzati in una lettura tragicomica, attraverso la chiave di lettura del gioco dei bambini, lo spettacolo è interpretato Olivia Molnár, figlia di Giulio, che si racconta in questa intervista parlando dello spettacolo.
Piccoli suicidi è uno spettacolo storico del teatro di figura, creato da tuo padre Giulio nel 1984 e da allora in tournée ininterrotta. Nel corso del tempo, come si è evoluta l’opera?
«Quando iniziò a portare in giro Piccoli suicidi, nel 1984 mio padre aveva circa l’età che ho io adesso. Lo spettacolo è nato grazie a un laboratorio creativo: all’epoca non si parlava di teatro di oggetti, per cui si trattava di una sperimentazione. Il primo episodio, quello con le caramelle, è stato il primissimo a nascere; gli altri sono arrivati dopo e si sono aggiunti alla spicciolata per creare una forma drammaturgica a episodi, che hanno goduto fin da subito di una sorta di autonomia. Nel tempo sono stati apportati cambiamenti per trasformare l’opera, da esercizio quale era, a spettacolo teatrale più strutturato e composto, con anche alcune modifiche da parte di altre compagnie straniere che hanno ripreso in mano lo spettacolo nel tempo. E quando ho iniziato a farlo io, lo abbiamo cambiato e adattato un po’ alla mia gestualità e al mio corpo, essendo più giovane, donna e con un’altra mentalità. In ogni caso, devo dire che siamo rimasti abbastanza fedeli alla partitura, alla base e alla struttura, perché lo spettacolo funziona ormai da quarant’anni ed è ben rodato».
Nello spettacolo, gli oggetti hanno una funzione precisa. Con il loro utilizzo, quale messaggio desiderate trasmettere?
«In generale, penso che il teatro di oggetti sia nato in una certa epoca – ovvero gli anni ottanta – anche in risposta all’emergere della società di consumo, e lo si vede tantissimo in questo spettacolo, che sembra al tempo stesso atemporale e molto datato nel rapporto con gli oggetti. Infatti, quelli che io uso nello spettacolo sono praticamente in via di estinzione: si tratta di una serie di utensili che oggi molto difficili da trovare, come la crema da barba, la cartina geografica, i fiammiferi… Anche la quantità di rifiuti che vengono buttati alla fine dello spettacolo, diventa da un certo punto di vista una riflessione critica nei confronti del consumismo. Gli oggetti hanno da sempre condiviso la loro storia con l’uomo, hanno rappresentato e assorbito il progresso, per cui diventano dei personaggi perfetti per raccontare storie. Un oggetto, ancor più di una marionetta, può assumere un significato simbolico, diventando la cristallizzazione nel tempo di un significato che si è raccolto in decenni o in centinaia di anni di storia dell’umanità, del design e del rapporto delle persone con il mondo. Siamo noi che carichiamo gli oggetti di un significato simbolico e il teatro di oggetti gioca con questo significato. L’utensile, quindi, diventa alternativamente personaggio e cosa materiale: ogni tanto vive la sua vita, la sua forma e la sua maniera di muoversi e di interagire con le altre cose; poi all’improvviso, ed è questo che spesso crea senso e cortocircuito nella narrazione, ogni tanto esso ritorna un semplice utensile. Allo stesso modo, c’è una specie di ambivalenza nel ruolo del narratore, da una parte molto distaccato e solo al servizio della narrazione, essendo là per aiutare l’oggetto ad auto-narrarsi, e dall’altra in certi momenti ad agire invece come una specie di deus ex machina o come personaggio lui stesso».
Quello della manipolazione degli oggetti non è sicuramente un ambito di lavoro e di studio facile. Come ti sei approcciata a questo mondo?
«Ho visto questo spettacolo da quando sono nata, e la mia formazione è stata soprattutto l’esperienza sul campo, ovvero quello che ho potuto osservare per tutto il tempo in cui ero con i miei genitori e li seguivo. In seguito ho fatto qualche formazione in ambito teatrale, però niente riguardo alle marionette. D’altra parte faccio cinema d’animazione che non è poi così distante, perché c’è qualcosa che richiama comunque l’ambito della manipolazione. Per me è facile parlare di questo spettacolo, perché già molto è stato scritto su di esso. Essendo stato ampiamente riproposto, tantissima gente lo ha analizzato e mio padre ci ha scritto sopra addirittura un libro. Per cui a un certo punto, anche se non sono una specialista del genere e non ho studiato nulla in merito, ho assorbito abbastanza per poter sviluppare facilmente delle riflessioni e poi, facendolo, l’ho finalmente capito. Nonostante ciò, qualcun altro potrebbe dirne tutt’altre cose e fornire una spiegazione completamente diversa, magari più filosofica o approfondita».
Com’è avvenuto nello specifico il passaggio del testimone da tuo padre a te? In cosa ti rivedi e ti accomuni a lui e in cosa, invece, senti di differenziarti?
«Il passaggio del testimone è stato abbastanza automatico e inevitabile. Mio padre mi ha sempre detto che questo spettacolo era la mia eredità, per cui sono stata battezzata con questo destino già scritto! Tra l’altro, pur essendo praticamente cresciuta con questo spettacolo, all’epoca dell’infanzia non lo sentivo mio, lo detestavo. O meglio, mi piaceva molto però ero troppo empatica con i personaggi, per cui quando andavo a vederlo piangevo sempre e finivo per dover uscire dalla stanza. Me lo ricordo bene, ero troppo piccola ed era tutto troppo forte per me. Sicuramente è uno spettacolo che i bambini capiscono molto bene, ma non è particolarmente adatto per loro. Forse è uno spettacolo più per adulti, e credo che anche tutto il rapporto simbolico con gli oggetti sia più pensato per loro. Poi a un certo punto, dopo avere fatto un percorso diverso, mi sono re-interessata al teatro di oggetti e mi sono detta: “Questo è il momento in cui ho voglia di impararlo”. Per cui il passaggio è stato molto fluido, era come se in un certo senso sapessi già come farlo. All’inizio imitavo più che altro mio padre, perché avevo in mente il film di come lui lo faceva. Mi ha aiutato molto, in un primo momento, il fatto di averlo visto e rivisto, permettendomi di conquistare una certa autonomia e libertà di azione. Mio padre oltretutto mi ha aiutata a riprenderlo, per cui abbiamo discusso insieme su quali modifiche apportare allo spettacolo e su come potevo fare a metterlo in scena, facendo un po’ da occhio esterno. Così adesso lo porto in giro tranquillamente anche da sola e ora sento che mi appartiene di più, anche se mi sento sicuramente interprete e non autrice del racconto».
Piccoli suicidi è uno spettacolo internazionale. Pensi che certe variabili, come la lingua e la cultura dei diversi paesi, influiscano in qualche modo su come l’opera viene tradotta e su come il suo significato viene compreso e interpretato dal pubblico, oppure questa barriera è trascurabile?
«È una questione molto interessante, perché il teatro di oggetti è estremamente antropologico, legato a un contesto sociale e alla carica simbolica che dà agli oggetti, e questo è un aspetto sicuramente culturale. In Europa le differenze sono presenti più in termini di espressioni e di vocabolario, come per esempio qualche battuta che non riesci bene a tradurre, però in generale lo spettacolo è accessibile e condivisibile ovunque. Mio padre tra l’altro è ungherese, quindi credo ci sia comunque uno strato di comprensione del rapporto con gli oggetti che io stessa non capisco. Venendo lui da un paese che ha vissuto il realsocialismo, il rapporto con gli oggetti era completamente diverso rispetto alle società del consumismo, e la preziosità di un oggetto era valorizzata molto di più. La fascinazione che lui ha per le caramelle colorate è quella di un bambino che ha vissuto sotto il regime sovietico, per cui i colori e la plastica era tutto un “wow, che meraviglia!”. Ovviamente questo strato in parte si è perso, ma viene trasmesso ancora in qualche modo nello spettacolo. Non so poi come sarebbe lo stesso spettacolo al di fuori dell’Europa, dove probabilmente avrebbe tutta un’altra percezione; ma di sicuro ci sarebbe sempre qualcosa di universale che passa: è il linguaggio del gioco dei bambini».
Quello del suicidio, e più in generale della morte, è un tema sempre molto attuale e allo stesso tempo mai sufficientemente trattato. Che ruolo hanno questi temi all’interno dell’opera? E come siete riusciti a rappresentare con apparente leggerezza argomenti così complessi e profondi?
«C’è un transfert sugli oggetti che rende le cose allo stesso tempo drammatiche ma anche molto ridicole, direi patetiche. I personaggi sono fragili e insulsi, sono delle nullità, come il chicco di caffè, e questo rende tutto più assurdo. Non so neanche se sia effettivamente uno spettacolo improntato sul suicidio, nel senso che sicuramente la morte, il tempo e l’aspetto deperibile delle cose sono argomenti rilevanti e c’è una forte riflessione attorno a essi, ma personalmente non trovo che il tema del suicidio, nonostante il nome dell’opera, sia così centrale. Credo invece sia importante il rapporto stesso con la morte, con il tempo e con gli oggetti, che vengono buttati, spariscono e si degradano. Tutto è estremamente umano, in maniera così esagerata da assumere un aspetto tragico nel senso greco del termine, ma alla fine tutto è anche ricondotto a piccoli arnesi inanimati. Gli esseri si animano per l’occasione, perché di fatto sono già morti. Forse è anche questo il paradosso: l’opera si rivela realmente sia tragedia che commedia, cioè crea al tempo stesso drammaticità e ilarità, per il fatto che quelle cose in realtà non sono realmente vive. Sono solo oggetti inanimati che muoiono».
intervista a cura di Sara Brugnettini